Musicanidi di Maurisio Seimani: A Toys Orchestra, Bevis Frond, Sandro Perri
Impossibile Spaces
(calabrocanadese fo de cò)
a cura di Maurisio Seimani
Recensendo quest’ ultimo album del
musicista e produttore canadese Sandro Perri (di ovvie origini
italiane, il padre è calabrese), anzitutto non si può
che spendere una nota di merito per la bellissima copertina, che
attraverso un’ immagine molto semplice e suggestiva, ne sintetizza
perfettamente l’atmosfera ed il contenuto musicale. Nei sette pezzi di questo “Impossibile
spaces”, Perri trasporta infatti l’ascoltatore in un recondito
territorio della mente, una dimensione nella quale un cielo
perennemente sereno veglia su una terra abbandonata e selvaggia,
attraversata da delicate nenie tribali, che si fondono con
futuristiche brezze elettroniche. Davvero impossibile, perciò, spiegare
la musica di questo album riconducendolo ad un genere. Gli
“Impossibile Spaces” di Perri si adagiano su piani sonori non
suscettibili a qualsivoglia classificazione. Tutto suona lontano, diverso, grazie
anche ad una costruzione dei pezzi assolutamente atipica ed
originale. Musica per lucide menti aperte,
insomma, pronte a perdersi negli oltre dieci minuti di Wolfman, o nei
quasi otto minuti di How will I?, ben consci che nel mondo di Sandro
Perri non esiste tempo. Qui proponiamo “Changes”, non foss’
altro perché è l’ unico pezzo del disco disponibile su You Tube.
Forse non il più bello dell’ opera, ma chi avrà la pazienza di
spingersi oltre i primi 3 minuti e mezzo del video avrà la fortuna
di assaporare appieno tutto ciò che qui si è appena descritto. Non
è roba per gente che ha fretta questa. Negli Impossibile Spaces di
Sandro Perri, appunto, non esiste tempo.
In una parola: metafisico.
Giudizio: 4 palle.
A Toys
Orchestra
Midnight (R)evolution
(spaccachiappe from Agropoli)
Cosa si può scrivere di un disco
confezionato in modo impeccabile? Suona tutto equilibrato e perfetto
nell’ ultima opera degli A Toys Orchestra: indiscutibile qualità
musicale, attitudine per il pezzo immediatamente orecchiabile ed
accattivante, cultura musicale che confluisce immancabilmente in un
uso sapiente della citazione. A fronte del fatto che (per quei pochi
che ancora non lo sapessero) si sta parlando di un gruppo di casa
nostra, formatosi ad Agropoli, Campania, non stupisce dunque che da
queste parti i loro ultimi lavori vengano ripetutamente accolti dal
pubblico più esigente e dalla critica specializzata con un
gigantesco entusiasmo. Perché ok, forse gli A Toys Orchestra non
saranno i Sigur Ros o i Motorpsycho (tanto per citare due gruppi di
origine non anglo-statunitense di immensa statura), ma sanno
sicuramente che tasti andare a toccare, e, a conti fatti, questo
entusiasmo appare assolutamente giustificato, perché, oltretutto,
spesso ripagato. E’ ottimo indie rock questo. Sottilmente italiano,
ma soprattutto di grande respiro internazionale.
E, inoltre, diciamolo: che le
generazioni più giovani di questo paese si ritrovino finalmente a
cantare in coro i testi, in inglese, di un gruppo campano, mentre dei
vecchi decrepiti continuano a farfugliare di un’inesistente
“Padaniaaaargghhhhhh”, non può che farci piacere. Ci uniamo dunque volentieri all’entusiasmo collettivo.
In una parola: Italy!
Giudizio: 3 palle e mezza.
The Bevis
Frond
The Leaving of London
(l'uomo dello spiedo)
“Everyone have a
favourite tune. Is this yours?”, ci chiede ironicamente una
voce all’ inizio di “The leaving of London”, prima che l’
attacco di “Johnny Kwango”, il brano d’ apertura, ci catapulti
immediatamente in quel mondo irriducibile e reazionario della musica
rock, in cui si può ancora urlare senza imbarazzi, e in culo a tutto
e tutti : “My my hey hey, rock and roll is here to stay!”.
“Everyone have a
favourite tune. Is this yours?”, ci chiede il britannico
Nick Salomons, in arte Bevis Frond, all’inizio della sua ventesima
opera, perché nei diciotto pezzi di questo lunghissimo disco (un’ora e un quarto di durata complessiva) non ci si troverà nient’altro.
Siamo nelle badlands più polverose del
rock and roll qui. Siamo su quelle selvagge strade immaginarie nelle
quali Neil Young si trova a farsi una schitarrata con i REM, i Perl
Jam reinterpratano i Byrds su una spiaggia della California, i
Creedence Clearwater Revival se ne suonano una con i Love, e Dylan e
Springsteen fanno girare una birra strimpellando una ballata, scritta
da Hendrix. Non è dunque buttata lì a caso la
domanda: “Everyone have a favorite tune. Is this yours?”. “Perché
se così non è: tanti saluti, fratello!”, sembra voler aggiungere
Nick Salomon. Questo disco è fatto per chi sa ancora apprezzare
certa roba buona, fatta in una certa vecchia maniera. E’ fatto per
chi, in sostanza, resiste ancora, irriducibilmente, in una certa
parte giusta del mondo.
In una parola: badlands.
Giudizio: 3 palle.
Saluti ai Musicanidi. Ci risentiamo a gennaio con i dieci
dischi dell’anno di MDC.
Ormai sono anni che i canadesi dettano legge dal punto di vista musicale che siano di origine italiana o meno...si può dire che se a livello musicale il primo decennio del secolo ci ha portato qualcosa di nuovo è grazie al Canada.
Ormai sono anni che i canadesi dettano legge dal punto di vista musicale che siano di origine italiana o meno...si può dire che se a livello musicale il primo decennio del secolo ci ha portato qualcosa di nuovo è grazie al Canada.
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