Dennis Coffey

 Dennis Coffey
a cura di Maurisio Seimani

L’ottimo “Good things” di Aloe Blacc, il bel disco di covers di John Legend&The Roots (Wake Up!), il mese scorso quello di Black Joe Lewis&The Honeybears... insomma, quanta bella “robba” sta uscendo in quest’ ultimo periodo, parlando di quella sudatissima black music tutta ritmo e sooouuuul che ai tempi rese leggendarie etichette come Motown e Stax. Non poteva dunque mancare all’appello anche una leggenda vivente come Dennis Coffey, settantenne di Detroit in verità bianco (foto), che di quell’epoca d’ oro fu uno dei protagonisti, arricchendo con la sua chitarra la maggior parte dei singoli di maggior successo della stessa Motown. Creatore poi di formidabili funky-groove nei 70 (si ascolti, per esempio, Scorpio), si impose come musicista di culto fino ai giorni nostri (benché, da detroitiano doc, ad un certo punto sparì dalle scene per andare a lavorare come tecnico alla General Motors). Ma rieccolo qui, ora, il vecchio Dennis Coffey, completamente a suo agio nel confrontarsi senza problemi con le nuove leve di cui si diceva sopra, con un disco nel quale pezzi inediti convivono con la riproposizione di vecchi cavalli di battaglia completamente riarrangiati (del resto qui non è poi così importante cosa si suoni, ma come lo si suoni). E’ un album che gronda di groove, dove il funk e la chitarra del nostro la fanno da padrone. E insomma, si diceva, quanta bella robba ci sta arrivando ultimamente da quella black music vecchia maniera che non si sentiva da parecchio? Aloe Blacc, John Legend, Black Joe Lewis, ed ora un grandissimo ritorno di Dennis Coffey…“There’s a party in da house!” qui, gente, non perdetevelo per nessuna ragione!
In due parole: BIG BRODA!
Giudizio: 4 palle.



The Strokes


Angles

Quanto è facile dare addosso agli Strokes…Per chi volesse mettersi in fila, la parte da tenere è davvero molto semplice: basta montarsi in faccia quell’espressione un po’ snob di chi la sa lunga e poi sottolineare ancora una volta che non hanno inventato nulla, che sono dieci anni che fanno la stessa musica, che sono troppo commerciali, e che, diciamocelo, c’hanno pure la faccia da paraculi (nelle foto, ndC)… Ma la domanda, in fin dei conti, è: perché dovremmo farlo? Lasciando per un attimo da parte la faccia da paraculi, io mi chiedo: la ripetitività, il non avere inventato nulla (quanti sono, alla fine, i gruppi che hanno realmente inventato qualcosa di completamente nuovo nella storia del rock?), l’attitudine a scrivere pezzi commerciali, sono realmente ragioni sensate per criticare un artista? A me sembrano tutte cazzate e credo anzi che una buona recensione dovrebbe semplicemente limitarsi ad informare il lettore su che genere di musica è contenuta in un disco e se il disco “gira” o non “gira”. Anche perché le vere ragioni per le quali un certo album può girare bene o girare male sono in realtà, spesso e volentieri, inspiegabili. Peraltro, tornando più specificatamente a parlare degli Strokes, a me sembra che la loro sfortuna sia stata solo quella di produrre un disco veramente molto fiacco ("Room of fire") dopo un esordio strepitoso ("Is this it"). In realtà, anche il predecessore di questo Angles, 1st Impressions of Earth, non era per niente male. E dunque, in conclusione, questo è quanto posso dirvi: Angles è il nuovo disco degli Strokes. Il genere è il solito genere degli Strokes, non aspettatevi nulla di diverso. Semplicemente, adesso questi ragazzi suonano meglio ed il basso ha un ruolo molto più definito e importante nell’ arrangiamento delle canzoni. E, per il momento, sembra che tutto giri ancora piuttosto bene.
In una parola: gira.
Giudizio: 3 palle.


Easy Star All Stars - First light
Giudizio di parte? Sì, giudizio di parte. Li adoro questi ragazzi (che poi tanto ragazzi non sono). E, complici ben due viaggi in Giamaica, adoro il reggae. Già, il reggae, quella musica della quale normalmente tutti ascoltano solo quanto prodotto da Bob Marley a poi ti vengono a dire che “è tutta uguale”. E grazie al c…Praticamente è come avere ascoltato per tutta la vita sempre e solo Bob Dylan e dire lo stesso del rock. Comunque… Gli Easy Star All Stars sono un ensemble di musicisti, facenti base a New York, molti dei quali giamaicani. Si sono fatti conoscere in tutto il mondo per gli spettacolari riadattamenti reggae di tre album storici del rock: Dark side of the moon (diventato Dark side of the dub), Ok Computer (Radiodread) e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Easy Stars Loney Hearts Dub Band, il mio preferito). Riadattamenti che avrebbero potuto tradursi in colossali “pattonate” (come si ama dire dalle nostre parti), se l’ innegabile talento dei musicisti in questione non avesse tenuto testa al rischio di cui si erano fatti carico. Ebbene, in questo First Light, per la prima volta gli E.S.A.S. si presentano invece in una nuova veste, proponendo canzoni del tutto inedite. Sia ben chiaro, però: non c’ è nulla di rivoluzionario nel loro approccio. Semplicemente i nostri sono dei maestri nel riutilizzare con maestria le sonorità classiche del roots reggae giamaicano, riuscendo però a non apparire mai leziosi. Come ci riescono? Molto semplicemente hanno talento. Me ne resi conto ancor di più, andandoli ad ascoltare (accompagnato dal sempre valido Colonnello Kurtz) due estati fa in occasione di un festival di musica a Sestri Levante. Coinvolgenti, bravissimi. Dovessero capitare dalle vostre parti non fateveli scappare.
In quattro parole: easy stars, all stars.
Giudizio: 3 palle

Saluti ai musicanidi. Un buon maggio a tutti.

Maurisio Seimani

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