Mogwai


Hardcore will never die but you will


a cura di Maurisio Seimani

Sarò sincero, quello dei Mogwai è un treno che, senza vere e proprie ragioni, mi sono un po’ perso, nonostante il buon RSK, amico dai fini timpani, mi avesse più volte riferito della bravura di questi un tempo giovani scozzesi. Se non altro, però, questo mi ha permesso di avvicinarmi al loro ultimo album senza alcun rimpianto, non foss’ altro perchè appunto delle loro grandi opere del passato so poco o nulla. Ebbene, con l’ignoranza, dunque, di chi non sa quali siano i picchi massimi che può raggiungere questo storico gruppo, di “Hardcore will never die but you will” (ma quanto è bello questo titolo?) ho solo da dire quanto segue: che è meraviglioso. Immaginate una landa sconfinata e poi immaginatela attraversata da suoni epici, che si portano appresso colori, gioie, nebbie, malinconie e... puro genio. Veramente meraviglioso. Non so... "Hardcore will never die but you will"? In un intervista loro hanno spiegato che l’“hardcore” a cui si riferiscono è l’“happy hardcore”, un’orrenda musica techno, che va tanto di moda dalle loro parti (“Autentica robaccia...”). Ma se l’ ultimo disco di un gruppo che è ormai in circolazione da oltre dieci anni riesce ancora a lasciare tracce così profonde anche in un ascoltatore dell’ultim’ora come il sottoscritto, mi sa che lo si può affermare con una certa tranqullità: “Hardcore will never die, but the Mogwai will still be there!”
In una parola: convincente.
Giudizio: 4 palle e mezza.

Black Joe Lewis & The Honeybears
Scandalous

Non so se con l’età sia diminuita la mia pazienza nei confornti di "ascolti" più ricercati o se la musica indie che gira di questi tempi in effetti manchi di quel "qualcosa in più" che possa evitare di trasformare un qualsivoglia "ascolto ricercato" in un molto più banale "fracassamento di marroni". Nel dubbio, non può che farmi un gran piacere constatare come nel frattempo escano dischi alla “Scandalous”, che riallacciandosi alle più bastarde radici della musica americana delle origini, altro non vogliono che scoperchiarti il tetto di casa con la rozza energia, tipica di chi l’indie non sa nemmeno dove stia di casa. Riff taglientissimi, fiati killer, il tutto caricato su un treno in corsa che non si fermerà per nessuna ragione fino all’ultimo capolinea (perchè non concede tregue dall’inizio alla fine questa bomba black di Black Joe Lewis e dei suoi Honeybears). Davvero: se da qualche parte lassù (o laggiù) John Belushi ha avuto occasione di ascoltarsi questa roba, si può star certo sicuri che non mancherà di sbatterla su a tutto volume, quando deciderà di scolarsi, ancora una volta, tutta d’ un fiato, un’ altra bottiglia di Jack Daniels! E detto questo, ho detto tutto.
In una parola: cazzuto.
Giudizio: 4 palle e mezza.


Rem,
quello che non avrei
mai voluto dire 
(e per i nostalgici delle ballate Grunge:
riascoltatevi gli Alice in Chains va là...)

Terzo disco del mese: non pervenuto (divertiamoci dunque a sparare sulla Croce Rossa, ma non solo).

Non ce la faccio... davvero non ce la faccio. I REM (Collapse into now) e i Subsonica (Eden) sono ormai dei cadaveri. Se non altro, riguardo ai REM, si mormora che sia l’ultimo album. Speriamo, perchè vederli agonizzare in questo modo fa male all’anima. Il vecchio J Mascis (ex Dinosaur Junior) ha fatto un disco di ballate grunge di cui la stampa specializzata ha parlato molto bene (Several shades of why). Non fatevi fregare: non vale nemmeno un’unghia - per dire - del buon vecchio unplugged degli Alice in Chains (nel video "Would?"). Dovesse prendervi la nostalgia, riascoltatevi quello che è meglio.


Venendo a cose migliori... c’ è invece questo Josh T. Pearson (nella foto) che ha fatto un disco ("Last of the country gentleman") che è un capolavoro. Il problema è che intenso. Troppo intenso. Voce, chitarra, desolazione, e lunghissimi silenzi. Così intenso, però, che è un disco che difficilmente riuscirete ad ascoltare più di una volta. Se vi và, comunque, sarà senz’altro un’ esperienza. Indefinibile.

L’Italia: è uscito il nuovo degli Assalti Frontali (Profondo Rosso). Non amo l’hip-hop, ma ho sempre provato verso questo gruppo un’incondizionata simpatia. Coerenti, sinceri, intransigenti e a tratti, sì, anche discutibili per alcune loro posizioni... Ma che chiedere di meglio se si sta parlando di hip hop? Sarò sincero, fosse per me consiglierei questo disco a mani basse, ma non mi sono sentito di metterlo come disco del mese, perchè appunto riconosco che in questo caso il giudizio sarebbe molto molto di parte. (Diciamo che, oggettivamente parlando, mi sembra in realtà un’opera un po’altalentante). In ogni caso, cani di tutte le latitudini, ascoltatevi questa:



La canzone italiana più bella del mese è però probabilemente “Il sogno della vipera” del siciliano Cesare Basile (album: Sette pietre per tenere il diavolo a bada). L’ album contiene pezzi meravigliosi (mai la Sicilia è sembrata tanto vicina alle terre del diavolo e del voodoo). Però, secondo il sottoscritto, ha anche questo, come il disco degli Assalti Frontali, il difetto di non mantenere la stessa intensità dall’inizio alla fine. Peccato, perchè i pezzi belli del disco sono veramente belli. Il problema sono gli altri...

Saluti ai Musicanidi, Ci rivediamo a maggio

Maurisio Seimani

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