Air Force One

di The Wildcatter

Un cronista del Washington Post scopre che alcune delle sue parole, dette mentre accompagnava con la sua macchina, in giro per i sobborghi della capitale statunitense, un amico fotografo e una, a lui sconosciuta, donna inglese, sono finite prima in un libro sotto forma di poesia a commento di una fotografia e poi in un disco sotto forma di testo di una canzone rock. [tutta la storia qui

Capita infatti che esca un video.
Il video parte con l’immagine di uno specchietto retrovisore che riflette l’immagine di un paio di occhiali da sole, dietro cui il cronista in questione si riconosce. 
Scopre anche che la sua voce è stata utilizzata come introduzione alla canzone. Chiede di poter parlare con quella donna inglese, curioso di capire come sia stato possibile che le sue parole siano state “usate” in un processo di elaborazione artistica con una rilevanza, di fatto, mondiale. 
Sì, perché la sconosciuta donna inglese non è altri che PJ Harvey
Riceve un secco no alla sua proposta. 

Il cronista del Washington Post in un certo modo si è trasformato da strumento per sviluppare un progetto che ha visto impegnati per più anni PJ Harvey e Seamus, un fotografo di guerra, tra Kosovo, Afghanistan e, appunto, Washington DC a piccolo protagonista a sua insaputa del progetto medesimo. 
L’uscita del video della canzone fa nascere anche un po’ di malcontento: il cronista segnala alcune lamentele di alcuni gruppi di abitanti di Washington DC per l’immagine della città che da esso traspare. Sembra per di più il frutto di un giudizio negativo elaborato da una donna che non è mai scesa da una macchina e che ha semplicemente appuntato su un giornale le frasi “migliori” del suo Cicerone, sfruttandone interamente una per l’incalzante finale della canzone che deve “tirare la volata” per il disco in uscita (they’re gonna put a Wal Mart here, they’re gonna put a Wal Mart here).

Forse questo rappresenta un ulteriore motivo per il quale sarebbe oltremodo interessante che si tenesse davvero il colloquio tra l’occasionale taxista e la musicista del Dorset. Con ogni probabilità questo colloquio non ci sarà mai. Leggendo l’articolo mi sono trovato a valutare l’ipotesi che questo appuntamento sia stato rifiutato da Polly anche per una sua forma di arroganza o di sgradevole senso di superiorità nei confronti di un uomo poco più che comune. 
Basterebbe spolverare qualche stereotipo sui britannici per convincersene, anche senza avere una conoscenza diretta della questione, peraltro con ogni probabilità già del tutto archiviata dal diretto interessato. Rimane il fatto che io sia un re indiscusso dell’overthinking e quindi sono partito con una riflessione, volta a determinare quanto sia importante confrontarci non superficialmente con la cultura del nostro tempo. 

In un mondo ormai abituato a ragionare con i ritmi imposti dalla rete, non sarebbe stato del tutto irrealistico il seguente scenario: il “gran rifiuto” di PJ Harvey a incontrare il giornalista avrebbe potuto facilmente essere bollato come del tutto “inaccettabile”. Se per un caso fortuito l’eco di questo probabilmente trascurabile aneddoto musicale fosse stata molto più vasta, non farei fatica a immaginare numerosi leoni della tastiera riempire di contumelie PJ Harvey attraverso twitter, pronti a insultarla in modo colorito e in vari modi. 
Le ragioni potevano essere molteplici: quella di non dare il giusto riconoscimento al vero artefice dei suoi testi oppure quella di non essersi messa davvero in contatto con il popolo di Washington DC, peraltro definito come composto da just zombies che vivono in una drug town. 

“they’re gonna put a Wal Mart here” e non sai neanche che hanno cambiato piano regolatore e non ci sarà in quell’area proprio nessun nuovo centro commerciale. Vergognati, Polly Jean, la tua canzone fa SCHIFO!

Esasperare un giudizio su di un particolare per convincerci di aver formato un giudizio anche sul generale. Non capita la stessa cosa quando ci imbattiamo in commenti su video, canzoni o articoli palesemente non visti, ascoltate o letti e che seguono semplicemente l’onda del come quel video, quella canzone o quell’articolo ci è stato presentato? Non capita la stessa cosa quando formuliamo ipotesi fantasiose sullo stato d’animo di alcune persone di cui magari non abbiamo contatti reali, elaborate solo in base al cambiamento delle foto e dello stato del loro profilo WhatsApp o dei loro post su Facebook? 

La mia querelle planetaria “PJ Harvey vs cronista del Washington Post” è per fortuna del tutto ipotetica e, per una volta, ci siamo risparmiati quella sorta di rito collettivo in cui ci spogliamo completamente della complessità delle cose e ci creiamo una inutile e probabilmente solo esteriore granitica solidità delle nostre convinzioni su un argomento. In molti casi non ci rendiamo neppure conto che, facendo partecipi del nostro illuminato pensiero una platea smisurata di persone a cui tale pensiero non interessa minimamente, corriamo seriamente il rischio di risultare se non patetici, ridicoli. Il carisma e la storia di PJ Harvey ci impongono invece di trattare ogni sua produzione come un’elaborazione culturale vera e profonda, fatta da un’artista a cui non si può che riconoscere una speciale rilevanza e influenza sulla scena contemporanea. 

Il suo lavoro, qualunque forma e strumento utilizzi per realizzarlo e proporlo al pubblico, non può che essere riconosciuto come un’elaborazione culturale, meritevole di essere giudicata sulla base di un processo complesso e non immediato. Può anche non piacere, la sua voce per qualcuno può risultare addirittura sgradevole, ma non si può che riconoscerle di avere seguito un percorso artistico di altissimo livello. In altri termini: è un artista che ha sempre avuto qualcosa da dire. Ed è per questo che non si può esitare nel dire che, a suo modo, ha influenzato la cultura del nostro tempo. In più ambiti, come l’ultimo progetto con Seamus sembra proprio voler rappresentare plasticamente. 

Sono particolarmente ben disposto a riconoscere una sorta di “superiorità” a PJ, per via dell’importanza che riconosco ai numerosi ascolti che ho fatto dei suoi dischi negli ultimi vent’anni, all’esperienza avuta assistendo a un suo concerto a Ferrara qualche anno fa e alla trepidante attesa in cui mi trovo per il prossimo concerto di giugno a Londra e per il quale mi hanno regalato il biglietto il giorno del mio compleanno. Proprio sotto le stelle di Ferrara, nel cortile del castello, in una calda serata di luglio, avevo infatti percepito la forza del suo carisma. Dopo aver regalato un’esibizione magnificamente ispirata a supporto dell’imperdibile album “Let England Shake”, aveva salutato il pubblico e lasciato il palco. Il pubblico, completamente conquistato, per un tempo straordinariamente lungo e molto sonoramente aveva reclamato un bis che lei non concesse. Sul momento, io, come molti altri dei presenti, ci rimasi male. Nei giorni seguenti ero però ancora talmente conquistato dall’impatto della sua figura e del suo concerto che rivalutai come “perfetta” la sua scelta di non riapparire sul palco. 

Il mondo è complesso, non è fatto di verità assolute. Una certa porzione della realtà legata a quella sera ben potrebbe essere molto meno aulica: la diva magari era semplicemente scocciata dalla lunga trasferta per la data successiva e non vedeva l’ora di chiudere il prima possibile la sua esibizione. Il mondo è complesso, non è fatto di verità assolute. A prescindere dalle vere ragioni dell’assenza di bis nessuno riuscirà a cancellare il “mio” ricordo di quella serata e la convinzione di essere stato letteralmente conquistato dal fascino di Polly Jean. Sono convinto, in ogni caso e per concludere, che basta sfogliare il libro o ascoltare anche distrattamente la canzone “Community of Hope” per capire che c’è una sostanza, un fondo e un mestiere irraggiungibile ai più. In altre parole: questa è cultura. 
Ci credo talmente tanto che, ammetto, ho già formato un pregiudizio completamente positivo sull’intero album in uscita. Ci credo talmente tanto che non resisto a sottotitolare l’iconica immagine dell’Air Force One in volo radente su piccole case e vecchie automobili dei sobborghi di L'Avana prima di far atterrare il presidente Obama per la sua storica visita a Cuba e che metto qui sotto, rubando ancora alcune parole a quel povero cronista del Washington Post:
 ...“they’re gonna put a Wal Mart here, they’re gonna put a Wal Mart here."


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