Storie dal vivo: End Of The Road Festival, Dorset, England, 02/03/04 Settembre 2015

di The Wildcatter

Uno dei miei racconti preferiti di Bar Sport di Stefano Benni è “Il playboy da bar”, quello in cui si raccontano le avventure di Renzo, il playboy da bar, appunto, mettendo comicamente a confronto “i fatti” con la versione degli stessi raccontata dal protagonista agli avventori del bar. Copiando paro paro l’impostazione, ecco il mio resoconto di 3 giorni al festival “End of the Road”. Si tratta di un puro e semplice divertissment e quindi mi sono preso più di una licenza anche nei paragrafi relativi ai “fatti”.  Se non cogliete la pretesa comicità del racconto, consolatevi con qualche foto e la musica che ho messo qui sotto: forse vi farete un’idea del perché, una volta nella vita, si debba andare all’End Of The Road Festival, Dorset, Inghilterra. O almeno della bellezza dell’edizione di quest’anno. 

I FATTI: Atterro a Bristol con un’ora abbondante di ritardo e mi dirigo stancamente all’ufficio AVIS per ritirare la macchina a noleggio che ho prenotato. Vi sono subito vari intoppi burocratici per il riconoscimento del guidatore aggiuntivo e per la stipula della polizza assicurativa, di fatto necessaria non fosse altro che per evitare di dover aprire un interminabile contradditorio per segnalare tutti i punti della carrozzeria che già presentano significative ammaccature. Tutto questo non fa che accrescere i miei timori per la mia prima esperienza di guida a destra, per noi continentali decisamente il lato sbagliato per condurre un’automobile. Giro le chiavi e parto, teso come una corda di violino, incerto sulle carte che ho firmato per il noleggio e timoroso per possibili e indesiderati addebiti futuri sulla mia carta di credito. Cerco di prendere le misure ma subito mi accorgo di non avere per nulla la percezione di dove finisca la parte anteriore sinistra di questa Citroen 3 porte. Neanche il tempo di fare un paio di curve e mi sono perso, con all’attivo già un primo incontro ravvicinato tra lo pneumatico anteriore sinistro e un alto e affilato marciapiede. Per fortuna non ci sono danni e posso proseguire, talmente concentrato sul recupero della giusta strada che non riuscirei neppure a sostenere una conversazione telefonica con il mio migliore amico. 


IL RACCONTO AL BAR: Atterro a Bristol e un solerte addetto della casa di autonoleggio mi consegna, non appena varcata la soglia dell’aerostazione, le chiavi di una fiammante Jaguar XE d’epoca. Controllo da lontano la carrozzeria lucida e verifico compiaciuto che il colore della macchina corrisponde alle mie precise direttive, il mitico British Racing Green. Lascio come mancia quasi tutto quanto ho appena prelevato all’ATM e parto in quarta in direzione Dorset. Al volante mi viene naturale concordare con il comune sentire del popolo albionico: guidare a destra vuol dire davvero guidare dalla parte giusta! Mi bastano un paio di tornanti e un paio di rotonde prese “in pieno” per riscoprire il piacere della vera guida. Lungo il percorso mi viene in mente di telefonare ad un vecchio amico, l’ex pilota di F1 Martin Brundle. Saltiamo subito i convenevoli e, appurato che lungo la strada c’è un famoso circuito, organizziamo seduta stante per l’indomani la nostra solita sfida di velocità, approfittando del fatto che lui ha in prova proprio in questi giorni un paio di incredibili fuoriserie. 

I FATTI: Dopo qualche decina di miglia sono lievemente più a mio agio e raggiungo senza altri particolari patemi la città di Reading. Nonostante gli intoppi iniziali devo aspettare parecchio tempo prima che un mio amico, poco prima di mezzanotte, compaia alla stazione ferroviaria. Passo quindi faticosamente oltre tre ore in un pub dove si esibisce, su basi preregistrate, un cantante decisamente svogliato, mangiando un chicken hamburger e restando ipnotizzato da un indescrivibile trio di ottuagenari inglesi. Sono vestiti con improbabili giacche e papillon e trascorrono il proprio giovedì sera sfidandosi in diversi giochi d’azzardo. Recuperato il mio amico, passiamo circa un’altra ora in autostrada parlando dei nostri rispettivi lavori, con una particolare attenzione all’importanza della logistica e alle criticità insite nella realizzazione di magazzini automatizzati. Finalmente raggiungiamo la nostra sistemazione nelle vicinanze del festival: un bed & breakfast nel Dorset, scovato chissà come su Internet. Ci accoglie un tipico inglese di mezza età, un po’ alticcio, senza scarpe e con il pollicione del piede sinistro che fa bella mostra di sé avvolto da una singolare calza colorata spaiata rispetto a quella che avvolge completamente l’altro piede. La mattina seguente ci viene proposta una molto ordinaria colazione internazionale, scongiurando così la visione di prima mattina dei per me assai temibili fagioli inglesi. Alla radio trasmettono una canzone che mai passerà sui network italici e che apprezzo, ma di cui non riesco proprio a ricordare né titolo né autore. Inizio a riflettere sulla differenza di cultura musicale tra Italia e Inghilterra e comincio a fantasticare su cosa ci attende al festival. Penso anche a cosa possa implicare la forse impropria decisione di evitare come sistemazione quella di una tenda presso il camping allestito all’interno dei giardini che ospitano il festival. In ogni caso sono bastate previsioni del tempo con alte probabilità di pioggia per escludere in partenza tale possibilità. 

IL RACCONTO AL BAR Nel frattempo, a Reading, carico in macchina un amico di vecchia data, attualmente uno dei massimi esperti di logistica a livello mondiale. Non per nulla, ci eravamo dati appuntamento alle 23.52 e alle 23.57 siamo già sull’autostrada M3 a macinare miglia su miglia per raggiungere al più presto la nostra destinazione: una splendida casa di epoca vittoriana che ci è stata riservata dagli organizzatori del festival. Tutto è impeccabile, ci sono state riservate le due stanze migliori della villa e al risveglio ci attende una sontuosa English Breakfast, con i fagioli coltivati nell’orto della stessa villa e con il latte preso dalla fattoria della nostra vicina, l’adorabile P.J. Harvey. La stessa P.J. viene a trovarci e, per scusarsi del fatto che non presenzierà su nessun palco del Festival, imbraccia la chitarra e ci fa ascoltare in anteprima tre canzoni che finiranno sul suo prossimo album. Finita l’esibizione, guardo fuori dalla finestra e con malcelato senso di superiorità osservo le difficili condizioni della moltitudine che ha scelto la tenda come sistemazione per questi tre giorni. Mi informano che la notte passata la temperatura era di 5 gradi celsius e che c’è stata un’intermittente e fastidiosa pioggia. 

I FATTI: Prima di avvicinarci al festival ci fermiamo a pranzo nell’unico pub di un piccolo paese di campagna. Ci sono più televisori sintonizzati su canali sportivi che avventori. Tra corse di cavalli, di cui non capirò mai il fascino che esercitano sul popolo inglese, e resoconti sulle partite di qualificazioni agli Europei di calcio del 2016 ecco spuntare un servizio sull’imminente gran premio di Monza. Ad un certo punto intervistano l’ex pilota inglese Martin Brundle, una dignitosa carriera nei lontani tempi in cui anch’io seguivo con passione la F1. Vedendo quanto mi appaia vecchio, inizio a meditare sul tempo che passa e comincio a farmi prendere da una forte malinconia. Malinconia che scaccio velocemente, sospinto dalle alte aspettative per l’ imminente lunga serie di concerti che ci attende. Le grandi attese del primo giorno sono per i Django Django e i Tame Impala. 

IL RACCONTO AL BAR Do appuntamento al mio amico per il pomeriggio nel backstage per bersi una birra con i Django Django e i Tame Impala e raggiungo di buon ora il mio amico pilota al circuito. Trovo il buon vecchio Martin un po’ fuori forma e la nostra gara per una volta non ha proprio storia: vinco con un distacco di oltre 6 secondi. Ci fermiamo a un ippodromo vicino e scommettiamo insieme su di un cavallo quotato 7 a 1. Il weekend parte davvero alla grande: il nostro cavallo vince la sua corsa e quindi saluto Martin tra grandi sorrisi, dopo esserci divisi un bel gruzzoletto e avergli promesso un rivincita a breve sul circuito di Monza. In un battito di ciglia sono di nuovo al festival. 

I FATTI: I Django Django, il cui primo disco regalai tempo fa al mio amico, fanno la loro parte e ora aspettiamo curiosi l’esibizione dei Tame Impala. Inganniamo l’attesa parlando con una coppia di americani over 60 che ci aggiorna con vivo compiacimento dei loro trascorsi hippie e degli ottimi funghi allucinogeni provati la sera prima in campeggio. Veniamo interrotti da un’improbabile ragazzetta inglese con un altrettanto improbabile rossetto sulle labbra affatto carnose. Inopinatamente mi punta con decisione e, con la scusa di provare il mio cappellino, attacca bottone. Appena il tempo di chiedere all’americano di tenere d’occhio il mio cappello (souvenir di un viaggio a Chicago di cui gli avevo parlato poco prima) e vengo travolto dall’impeto di questa teenager. Parliamo un po’, mi dà un paio di baci, parliamo ancora un po’, mi abbraccia e così constata la mia totale assenza di muscolatura sulle braccia. Lascia trapelare tutto il suo “disappointment”. Gira i tacchi e fa per andarsene repentinamente. Solo la prontezza di riflessi del mio nuovo amico americano le impedisce di fuggire con il mio cappellino. La donna americana coglie il gesto del suo uomo e gli dona uno sguardo pieno d’amore. Tra me e me penso che anche quarant’anni fa dovevano aver incrociato i loro sguardi con la stessa carica di sentimento. Poi ci godiamo in tranquillità l’ottima esibizione del gruppo australiano. 

IL RACCONTO AL BAR: Applauditi i Django Django, un gruppo a cui non manca di certo l’energia, nell’attesa del concerto dei Tame Impala vengo “puntato” da una diciannovenne inglese, sinuosa e perfettamente truccata. Si avvicina sfoderando uno sguardo magnetico, con un gesto raffinato mi “ruba” il cappellino dei Chicago Cubs e mi abbraccia. Neanche il tempo di tastare i saettanti muscoli del mio braccio destro e lei mi sorprende dandomi un bacio appassionato. Il resto viene da sé. Prima di dileguarmi verso la villa riesco giusto a percepire il disappunto dell’attrice americana che aveva in precedenza flirtato con me, pur in presenza del suo compagno. Il mio amico mi riferirà poi che il gruppo australiano ci ha davvero dato dentro e il folto pubblico li ha applauditi con convinzione.

I FATTI: Il secondo giorno si avverte che vi sarà una maggiore affluenza di pubblico per gli spettacoli previsti sul palco principale. Molte delle attese sono riposte per l’esibizione di Sufjan Stevens delle 21.30, tanto che una possente e rubiconda ragazza si fa largo per conquistare le primissime file già verso le 16, comunicando a tutti che le spetta uno dei posti migliori, dato che può definirsi come una delle migliori amiche di Sufjan. Insospettito, indago su questo aspetto e scopro che si tratta semplicemente di una ragazza che quella stessa mattina ha intercettato il talentuoso cantautore in giro per i giardini e che, dopo un’estenuate pedinamento, era riuscita a ottenere un “selfie” con lui. Selfie di cui era ovviamente contentissima e orgogliosa. Direi fastidiosamente orgogliosa. Il pubblico intanto si divideva sulla pronuncia dell’eccentrico nome del cantante americano. L’agguerrita fazione che propendeva per la dizione “SufGian” era ignara di essere destinata a essere dolorosamente mortificata dall’autopresentazione del cantante nei primi minuti del concerto. Durante l’esibizione dei My Morning Jacket il mio amico mi abbandona per andare a sentire i Saint Etienne che suonano in contemporanea su un altro palco. Gli dico che lo aspetto per Sufjan e gli chiedo di portarmi un panino in modo da evitare di crollare sul più bello. In sua assenza il pubblico si fa sempre più fitto e, mentre inizio a giudicare impossibile il ricongiungimento con il mio amico, eccolo comparire dal palco accompagnato da un addetto alla security , consegnarmi un ricco panino con il pollo ed essere poi riportato nelle retrovie. L’insolito gesto viene notato da molti e nei miei paraggi conquisto immediatamente una certa notorietà. Questo mi porta a iniziare una conversazione con due ragazze che, dall’alto del loro metro e sessanta e di una certa pinguedine (i.e. “rotoli di ciccia”), nascondono molto bene le loro origini norvegesi. Non scatta un particolare feeling con loro, ma nonostante tutto le invito a fine concerto a raggiungere l’eroe del panino per bere qualcosa insieme. Inconsapevole del fatto che quando una ragazza norvegese fa apprezzamenti alla foggia del tuo maglione intende comunicare una sua certa disponibilità sessuale, la bevuta e le conseguenti danze alla “silent disco” trascorrono faticosamente. Quando le due ragazze scoprono che siamo alloggiati in un bed & breakfast e non in una tenda, si guardano tra di loro inorridite e si dileguano nell’oscurità. 

IL RACCONTO AL BAR Il secondo giorno tutto è focalizzato sull’esibizione di Sufjan Stevens. A pranzo conosciamo una sua ex compagna di scuola che lo sta accompagnando in tutte le date europee. Conquistata dalla nostra simpatia ci presenta Sufjan, con il quale il c’è immediata sintonia. Gli diamo qualche utile indicazione per il soundcheck e gli diamo appuntamento alla prossima data di Milano, dove dovrà ritenersi in tutto e per tutto nostro ospite. Il racconto di questo episodio è il facile espediente con cui io e il mio amico attiriamo l’attenzione di due ragazze norvegesi. Il loro rispetto totale di tutti gli stereotipati canoni di bellezza nordici rende superflua la descrizione del loro aspetto fisico. Percepisco una loro lieve diffidenza sulla nostra versione dei fatti, cosa che svanisce del tutto nel momento in cui Sufjan dedica la migliore canzone del suo repertorio “ai due nuovi incredibili amici italiani che ho appena conosciuto”. Tra me e me ringrazio Sufjan per aver eliminato del tutto le resistenze delle ragazze norvegesi, peraltro già rese tenui dall’essere state elegantemente informate del fatto che il nostro alloggio era quanto di meno assimilabile a una tenda Quechua. Un altro elemento a nostro favore è stato sicuramente rappresentato dall’apparizione del maggiordomo della villa che, con tempismo perfetto quanto la sua livrea, era comparso dal palco per recapitare alla nostra postazione in prima fila dell’ottima faraona ripiena accompagnata da un bicchiere di Barbera del ’56, in modo che potessimo goderci lo spettacolo a pancia piena.


I FATTI: Il terzo e ultimo giorno siamo sorpresi da una giornata di splendido sole. Incredibilmente neanche una nuvola fa capolino per tutto il giorno e la temperatura risulta finalmente gradevole. Nonostante la ricca offerta decidiamo con facilità di concentrare la nostra attenzione sul palco principale e veniamo subito ripagati dalla travolgente vitalità degli Alvvays. Per un momento mi incupisco pensando che potrei essere il padre della cantante, ma poi passo oltre. La mia attenzione è stata rapita dal fascino che emana una ragazza inglese dai lunghi capelli corvini. Il mio amico, principalmente per via del pesante trucco agli occhi, le affibbia subito il nome di “Amy”, rivendicando una certa somiglianza anche negli atteggiamenti con la compianta Winehouse. Decido di fare una scommessa con il mio amico: riuscirò a far sorridere questa ragazza solitaria prima dell’inizio del concerto dei Future Islands o, al massimo, di quello dei War on Drugs. Faccio quindi conoscenza con Tilly, originaria di Bristol e scopro la sua passione smisurata per i Future Islands e in particolare per il frontman del gruppo. Vinco la scommessa con il mio amico abbastanza agevolmente, facendola ridere di gusto ripetutamente, giocando su questa sua passione smisurata per un gruppo a me del tutto sconosciuto. Sembra stia per nascere qualcosa di più di una estemporanea simpatia, quando un ultracinquantenne inglese munito di una gigantesca reflex sfrutta la sua conoscenza enciclopedica di aneddoti sul cantante dei Future Islands per spodestarmi dalle attenzioni di Tilly. Galvanizzato dal colloquio con una bella ragazza, il signore inglese è ormai un fiume in piena e inizia a parlare con dovizia di particolari del miglior concerto della sua vita. David Bowie, 42 anni fa. Erano i tempi di Ziggy Stardust. Seguo la discussione nella speranza di parlare ancora con l’affascinante Tilly, senza particolare successo. Poi inizia il concerto dei Future Islands e per lei, totalmente rapita dalle improponibili danze e dalle grida belluine del cantante, non sono mai esistito. 

IL RACCONTO AL BAR: Il terzo giorno ci accoglie un cielo senza nuvole, tutto sembra girare ancora per il verso giusto! Gli highlights della giornata sono ancora una volta concentrati al Woods Stage, dove ormai siamo di casa e non passiamo certo inosservati tra manager dei gruppi, tecnici del suono e le immancabili groupies. Non è quindi certo un problema per noi conquistare i posti migliori per l’ultima infilata di concerti: Alvvays, Future Islands e War on Drugs. Tra il primo e il secondo conquisto le attenzioni di Tilly, fascinosa ragazza inglese con una certa somiglianza con la migliore Cat Power. Con la mia notoria nonchalance mi libero facilmente di un potenziale rivale, un colto inglese di una certa età, parente alla lontana di David Bowie. Tilly è però profondamente innamorata del cantante dei Future Islands e quindi, in uno dei miei rari momenti di autocritica, faccio un confronto mentale tra me e il suddetto e decido, per una volta, di lasciare campo libero al carismatico frontman della band statunitense.

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