Io & Annie – analisi dell’ennesima trasferta musicale.

di The Wildcatter

Può avere un senso intraprendere un viaggio in macchina da solo di oltre 500 km tra andata e ritorno nell’arco di poche, troppo poche, ore, al solo fine di ascoltare l’esibizione di una cantante di cui possiedo solo due cd e di cui, al momento della partenza, ammetto, non saprei citare il titolo di una sola canzone? Forse un po’ sì, almeno dal mio eccentrico punto di vista: si tratta pur sempre di un’artista molto amata dalle mie fonti di aggiornamento musicale, ossia da quelle élite che mi hanno da tempo plagiato e che in questo caso mi hanno convinto, ancor prima di averne una conoscenza effettiva, che tale Annie Clarke possa davvero essere, sotto lo pseudonimo di St Vincent, un punto di riferimento importante per la cultura musicale di questo strano millennio. Forse un po’ sì, anche per il piacere di poter rivendicare una trasferta musicale molto diversa da quella che potrebbe ordinariamente ipotizzare un lettore dei giornali, ammesso che ne esista ancora uno. Le cronache sono infatti in questi giorni dominate dagli entusiastici resoconti dei live di Jovanotti (ok, “Lorenzo”, pardon), Tiziano Ferro e Vasco Rossi. Come qualcuno mi ha insegnato a fare, citando uno dei tre cantanti indicati qui sopra, bisogna ogni tanto rimarcare “la differenza tra me e te”. Ho quindi deciso, parto! Gli stadi a loro, la baia del silenzio a me!


Compro il biglietto online, programmo una mezza giornata di libertà dal lavoro e ci siamo. Per mille motivi, non solo lavorativi, ho proprio un bisogno fisico, un’ur-genza di staccare, liberare la mente e perseguire un po’ di spensieratezza. Obiettivo non facile, soprattutto per uno come me. Ancor meno in questo ultimo periodo, in cui sembra che molti, troppi nodi abbiano deciso simultaneamente di fare approfondita conoscenza del mio pettine. 

Il concerto è quindi forse solo una scusa. Mi accorgo che l’idea di macinare molti kilometri in solitaria, accompagnato solo da buona musica (P.J. Harvey, Belle and Sebastian, Jim O’Rourke, i soliti Pearl Jam), per andare lontano da Brescia è quasi un’aspirazione. Farlo con un pretesto a sfondo musicale trasforma la cosa quasi in un rito. La molla decisiva per concretizzare questa piccola follia deve essere stata il pensiero che è passato esattamente un anno dal mio viaggio di ritorno da Trieste, dove avevo assistito al secondo concerto in pochi giorni dei Pearl Jam. Si tratta del viaggio durante il quale avevo maturato le riflessioni che erano poi finite nel mio primo contributo a questo blog di cani ( http://musicanidi.blogspot.it/2014/08/on-long-road-18-years-no-code.html ). A pensarci meglio, la molla è scattata quando ho pensato che covava in me la necessità di ritrovare la giusta dimensione della consapevolezza che avevo così nettamente percepito in quel viaggio e che aveva poi ispirato certi miei comportamenti dell’estate scorsa. La musica come “prezioso strumento per affinare quell’esercizio fondamentale per vivere se non felici, sereni: quello di conoscere davvero se stessi”, scrivevo. Imparare a convivere con i propri limiti, saper far risaltare ciò che ci distingue dagli altri: può non essere male essere se stessi. 

A distanza di un anno mi sento di aggiungere che “conoscere davvero se stessi” a volte può essere anche una piccola maledizione. Capita infatti di capire che, su determinati aspetti, non si potrà mai essere quello che si vorrebbe essere e che, purtroppo, non si è. Le dimensioni del “purtroppo” sono direttamente proporzionali alla sincerità e all’importanza del desiderio cui si deve alla fine “abdicare”, rendendosi conto che tutti gli sforzi che si possono sperimentare per cambiare risultano vani. Altre volte non si tratta di sapere di non poter perseguire un desiderio, ma si tratta, più beffardamente, di riconoscere dentro di sé di non essere neppure come è richiesto di dover essere, al solo fine di essere della partita. In un caso e nell’altro, o nella terribile combinazione dei due, si deve quindi fare a pugni con la consapevolezza dell’impossibilità di poter cambiare certi specifici aspetti di sé. Di norma si convive con questa consapevolezza, anche se può capitare di essere sopraffatti, anche solo momentaneamente, dal peso generato dallo iato tra chi sai esattamente di essere e come dovresti e/o vorresti essere per affrontare certe situazioni. A volte semplicemente per viverle. E così capita di perdere l’equilibrio, di commettere errori, di assumere comportamenti che si vorrebbe cancellare un momento dopo averli messi in atto. Non sto dicendo che bisogna rinunciare a cambiare se stessi. Dico che alcuni mutamenti, ad un certo punto della vita, sono proprio impossibili e bisogna prenderne atto, sebbene non sia facile. Scriverne sembra una cosa molto teorica, il rischio di risultare incomprensibili è molto alto. Eppure è solo l’ordinaria parte di un processo che ciascuno di noi sperimenta continuamente: la ricerca del proprio e personale equilibrio. Equilibro che a volte consiste proprio nel riuscire a essere sereni, dando nessun peso al fatto che per colpa di certi propri e invalicabili limiti si corre magari il rischio di dover rinunciare a una fetta di felicità, fosse anche illusoria e momentanea. 

Una volta vissuto questo mio viaggio mi risento davvero vicino a questo equilibrio, più o meno allo stesso modo di un anno fa. Ancora una volta devo quindi dire grazie a un’esperienza legata alla musica. Mi sento più leggero. Ne avevo bisogno. Una trasferta musicale è, quindi, per me, come raggiungere un porto sicuro. Lo è davvero. Ed è buffo che lo sia, dato che all’esterno appare senz’altro come un moto impulsivo, impaziente e irrequieto. Forse il segreto sta anche nel piacere di sapere di non aver rinunciato, vuoi per pigrizia vuoi per vincoli esterni, a qualcosa di bello e coinvolgente, anche se adesso mi trovo a contrastare a stento la stanchezza dovuta a un lungo viaggio. Da solo, lungo l’autostrada, alle prime luci del mattino, a volte spengo anche la radio. E mi sembra di rivedere tante vie da seguire per muovere da una pur logica malinconia verso una sana e sincera serenità. Strade da percorrere per riprendersi il diritto di vivere il presente. 

E non mi importa affatto che, come forse qualcuno avrà intuito dalla scalcagnata perifrasi di una delle mie canzoni italiane preferite, si tratti della ricerca di una … illogica allegria

P.S. Avevo messo il titolo a questo articolo sulla scorta di un dialogo preso da un trash movie visto poco tempo fa durante un prolungato e inconcludente soggiorno sul divano di casa (un tipo riusciva a conquistare la solita stangona americana risultando troppo perfetto per essere vero, in un crescendo di situazioni e coincidenze romanticamente “ricercate”, fino a quando lei gli dice “scommetto che anche per te il miglior film di sempre è “Io & Annie” di Woody Allen, lui le risponde “No, penso sia Terminator” o qualcosa del genere e la cosa scatena ovviamente un bacio appassionato tra i due). L’intenzione era quella di riuscire a trovare un parallelismo tra il mio primo approccio con la signora Annie Clark e qualche situazione tipica del mondo del celebre regista newyorkese. Perdonatemi se la missione è miseramente fallita, così come quella di scrivere due righe sensate su come si sia svolto concretamente il concerto a cui sono andato. Non ho lasciato spazio neanche per una piccola descrizione. Se vi fidate di me, vi basti sapere che Annie Clark a.k.a. St. Vincent si è guadagnata un posto nel mio firmamento delle migliori “cantantesse” attualmente in attività. Firmamento che comprende tra le stelle più luminose: PJ Harvey, Cat Power, Sharon Van Etten e Beth Orton. Anna Calvi e Feist sono luci intermittenti, a seconda del momento. Annie è stata infatti una scoperta sensazionale. È stata straordinaria, lungo tutto il concerto ha trasmesso senza il minimo calo di tensione il senso della sua presenza e della sua qualità di artista. La sua voce e i suoni della sua chitarra sembravano provenire da un’altra fantastica e fantasmagorica dimensione. Mi è sembrato di avere a che fare con un’ipnotista, una carismatica icona dei nostri tempi. Chapeau.

12 commenti:

  1. che storia, ma come fa ad esserci il video di tutto lo show? Chi è tele rdr 555?

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    1. là dove la cronaca di Wildcatter si perde (più o meno dappertutto) sopperisce tele rdr 555!
      que viva tele rdr 555

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    2. si incastonano e si completano l'un l'altro come due fottuti codici di un fottuto dcodice del fottutissimo libro di Dan Brown!

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  2. Finalmente un bel gatto bianco sul sito......VIVA WILCO

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    1. Se ne compariva uno nero di venerdì 17 giuro che diventavo superstizioso!

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    2. Se faceva uscire un disco con in copertina un gatto nero di venerdì 17 il suo download poteva ficcarselo nel culo, tiè tiè tiè!

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  3. SET LIST

    Marrow
    Birth in Reverse
    Regret
    Cruel
    Digital Witness
    Year of the Tiger
    Severed Crossed Fingers
    Cheerleader
    Prince Johnny
    Rattlesnake
    Actor Out of Work
    Laughing With a Mouth of Blood
    Teenage Talk
    Every Tear Disappears
    Bring Me Your Loves
    Huey Newton
    Encore:
    I Prefer Your Love
    Your Lips Are Red

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  4. "dovremmo cominciare a preoccuparci di che razza di mondo stiamo lasciando a Keith Richards" AHAHAHAHAHAHAH! GENIALE!

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    1. Non è nostra eh...è un tormentone che gira in rete.

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  5. Ma chi canta nel video di Gilmour? Irriconoscibile.

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  6. Più convincente il pezzaccio sporco di Keith.

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