Piccolo manifesto a favore del supporto fisico

di The Wildcatter


Piccolo manifesto a favore del supporto fisico legato alla musica, scritto dalla stessa persona che ha dichiarato al suo esordio su Musicanidi: “… cd che mi ostino a comprare, a volte in modo compulsivo, pur consapevole di essermi creato un ambito in cui sono fuori dai tempi in cui vivo” [testo completo qui].

Milano, autunno 2002.
Entro in un grande ufficio in Piazza Castello. Mi attende il secondo colloquio di lavoro in uno studio legale tributario. Oggi conoscerò uno dei soci, quello a cui spetterà l’ultima parola sull’inizio della mia collaborazione. Una gentile segretaria, dopo avermi scrutato con la rapidità e l’eleganza che solo certe donne sanno avere, mi accompagna in una stanza che facilmente individuo come l’ufficio del grande capo e mi dice che dovrò aspettare qualche minuto.
Sono un po’ nervoso, desidero moltissimo fare una buona impressione, non fosse altro che questa si presenta come l’occasione più concreta a mia disposizione per affrancarmi da un grigio inizio del periodo di praticantato per diventare commercialista. Ci deve essere per forza qualcosa di meglio da fare rispetto al mio attuale impiego, in cui mi sono prevalentemente dedicato a compilare dichiarazioni su dichiarazioni di persone fisiche di cui non conosco nemmeno il volto. I nomi di quelle persone, già di per sé destinati a ridursi al poco esaltante rango di codice fiscale, sono meccanicamente storpiati ai fini di archiviazione: si considerano solo ed esclusivamente le prime quattro lettere  del cognome e le prime quattro lettere del nome. L’esigenza di cercare un altro lavoro è risultata lampante quando mi sono trovato a riflettere sul fatto che uno dei momenti più alti della mia prima esperienza lavorativa da dottore in economia e legislazione per l’impresa era stato quello in cui avevo notato che una tale signora “Calarico Marialaura” si era trasformata nella pratica “Calamari”.
E così mi trovo ad aspettare di essere ricevuto dal socio di un importante studio milanese, in un ufficio elegante ma tutt’altro che sfarzoso, in una stanza ricca di un laborioso e per me affascinante disordine. Chi l’avrebbe mai detto, forse sotto la mia scorza timida e accondiscendente si cela un po’ di ambizione. Mi tolgo l’impermeabile e mi siedo, salvo accorgermi all’istante della non congruità della mia scelta. Mi alzo e inizio ad scrutare l’ambiente che mi circonda, alla ricerca inconsapevole di piccole cose che mi facciano sentire un po’ più a mio agio. Ci sono vari faldoni di pratiche intestate a clienti dai nomi altisonanti, cumuli di biglietti della segreteria che avvisano chi ha telefonato, libri, riviste e circolari ministeriali ricchi di sottolineature e note.
La mia attenzione è però rapita da un discreto numero di CD messi alla rinfusa su un tavolino e da un sacchetto di “Buscemi dischi”, il mio fornitore ufficiale di dischi.
[Oggi suona strano anche solo dirlo ma all’epoca, specialmente il sabato pomeriggio, anche entrare in quel negozio era difficile, tanta era la gente che voleva gratificarsi con l’acquisto di un buon disco].
Una mia occhiata rapida ed esperta mi permette di cogliere al volo una certa affinità di gusti musicali con il mio ancora sconosciuto interlocutore.
[A ripensarci ora sono quasi sicuro che una buona parte della naturalezza e della, pur relativa, decisione con cui ho affrontato quel colloquio superato positivamente sia da ascrivere a quella presunta e immediata sintonia tra me e la persona che aveva comprato proprio quei dischi e non altri].
L’attesa si prolunga e l’analisi dei dischi si fa più approfondita. Tra note liete e lietissime (tra tutte la copia di “Who is Next” in posizione privilegiata rispetto a tutti gli altri CD), due aspetti mi colpiscono negativamente:
- uno stesso disco è presente in due copie identiche;
- ci sono quattro o cinque dischi ancora incellophanati, a dispetto di una sistemazione che non tradisce affatto l’idea di un acquisto recente o recentissimo.
Mi trovo così a riflettere sulla possibilità che esista in natura un appassionato di musica che commetta l’imperdonabile leggerezza di comprare per sbaglio un disco che già possiede. La stessa persona peraltro che ha anche commesso l’inspiegabile e inaccettabile errore di privarsi del piacere facile e immediato di scartare la confezione del disco appena comprato, di vedere in controluce il CD subito dopo aver fatto quel tipico e leggero sforzo per staccarlo dalla plastica per la prima volta, di sfogliare il libretto e di godersi l’attesa del primo e approfondito ascolto.

Mentre la porta si apre e un distinto professionista si presenta scusandosi per il piccolo ritardo, tra me e me penso ancora ai dischi mai scartati visti in quell’ufficio e mi prometto solennemente: io non commetterò mai un simile errore.



Brescia, inverno 2015.
Sono nella stanza in cui sono cresciuto e dove ho dormito di più nella mia vita. La stanza è disadorna, un appendiabiti posticcio fa le veci di un armadio di cui sono rimasti solo i segni sul muro. Sulla scrivania c’è un caos infernale di cose prescindibili di cui però in fondo non voglio liberarmi. Sono seduto per terra, osservo molta polvere e sto ascoltando senza soluzione di continuità il disco “Mali Music”, un side project di Damon Albarn che contiene una canzone che mi aveva ipnotizzato al concerto di novembre alla Royal Albert Hall (la recensione completa del concerto è qui). È un disco che mi piace moltissimo e che ritengo si possa apprezzare solo con ripetuti ascolti completi dall’inizio alla fine, cosa che l’attività a cui mi sto dedicando mi consente agevolmente di fare. Sto infatti cercando di sistemare con un certo criterio la mia collezione di dischi negli scatoloni che ho sparso sul pavimento, in modo da poterla trasferire nel mio nuovo appartamento. Ho scelto una colonna sonora talmente piacevole che riesco sempre a vincere la curiosità di riascoltare certe canzoni, sensazione che di tanto in tanto fa capolino tenendo tra le mani alcuni particolari CD. Medito sul fatto che ascoltare proprio questo CD di musica africana, ormai fuori catalogo e stampato in Olanda, comprato non certo a buon mercato sull’onda lunga di una splendida trasferta londinese tramite Amazon USA presso un rivenditore di Tokyo che me l’ha gentilmente fatto recapitare a casa mia a Brescia rappresenta una sorta di sublimazione dell’importanza di possedere un supporto fisico per ascoltare la musica. Cosa che ritengo rimanere assolutamente vera anche al netto di un certo mio noto snobismo elitarista in materia (qui ai massimi livelli, lo ammetto!).
I dischi da inscatolare sono tanti e per non dilatare ulteriormente i tempi devo costringermi a non analizzarli uno a uno. So che quasi tutti hanno una loro piccola storia da raccontare: nella stragrande maggioranza dei casi so dire con precisione se si è trattato di un regalo o di un acquisto, se l’acquisto è stato effettuato in Italia o all’estero, in un negozio o su Amazon. Molto spesso saprei anche sommariamente descrivere il processo decisionale che mi ha portato a comprare un disco piuttosto che un altro in un determinato momento.
La “storia” dei miei dischi, dall’acquisto del mio primo CD (incredibile ma vero, si tratta della colonna sonora di “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”) all’ultimo (il vinile dell’ultimo delle Sleater Kinney) sarebbe inevitabilmente lunghissima. A tratti potrebbe essere sorprendente e ricca di aneddoti, nella sostanza non potrebbe che risultare tediosa. È in ogni caso piacevole ripercorrerla tra me e me, riempiendo uno scatolone dopo l’altro.
Mille e più contenitori uguali (salvo i casi sempre apprezzati di packaging fuori dall’ordinario), mille e più contenuti diversi. Sto diventando retorico e pomposo, ma in un CD o in un vinile si crea davvero uno speciale connubio tra “contenuto” e “contenitore”. Basta maneggiare un disco che sia “tuo” e naturalissime e non prevedibili sinapsi scattano, portando alla mente una complessità straordinaria di pensieri, ricordi, emozioni e, ovviamente, … musica. Vale per i dischi consumati e per i dischi trascurati. Per i dischi con packaging ricercati e per le riedizioni economiche con libretti striminziti.
Tutti i dischi che sto riponendo con cura in vari scatoloni contribuiscono infatti a rievocare con buona approssimazione chi ero, chi sono stato e chi sono. Dischi comprati mettendo da parte per settimane qualche spicciolo, dischi comprati nel cestone delle offerte, dischi comprati a prezzo pieno, dischi comprati insieme a tanti altri sperimentando il piacere di potersi concedere un piccolo lusso. Tutti hanno davvero concorso, foss’anche per una minima frazione centesimale, alla definizione di quello che io sono ora.
Penso a come nella vita spesso si spendano male i propri soldi. Non dico di non aver mai fatto qualche acquisto musicale incauto, dico però che in questo momento non rimpiango un solo centesimo (e sono tanti) di quelli spesi in musica negli ultimi 25 anni.
Mi interessa qui sottolineare, in altre parole, quanto mi sia naturale riconoscere il valore e la bellezza insita nel possedere tutti questi dischi. E trovo non trascurabile il fatto che ciò ha un valore anche perché è “costato”. Non mi curo del fatto che i CD siano ormai oggetti in via di estinzione: valgono per quello che (mi) raccontano, oltre che per le note che contengono. Esserne consapevole è quanto mi basta per ritenere con buona sicurezza che per tanto tempo continuerò a comprare e a regalare CD e vinili.
“DIGITAL IS MADE TO FORGET, ANALOGUE IS MADE TO REMEMBER” è una frase che avevo captato tempo fa su Twitter di un certo Robert Polidori e che ora riempio di un significato speciale: il riassunto quasi perfetto di quello che mi sta passando per la testa sul valore di possedere musica su un supporto fisico. Trovo peraltro curioso che nel mio caso l’analogico sia rappresentato da un oggetto che, in molti casi, reca sulla sua superficie la dicitura “digital audio”, beffardo segno di una innovazione tecnologica ormai divenuta obsoleta.
Riflettete un momento e se non riuscite proprio a cogliere ciò a cui mi riferisco sappiate che, con tutta probabilità, siete ormai anestetizzati dall’infinita musica gratuita scaricabile dalla rete e archiviata su anonimi e leggerissimi hard disk o confinata su server sparsi per il globo. Senza magari neppure rendervene conto, avete smarrito la percezione di una parte significativa del valore che la musica su un supporto fisico può rappresentare.
Penso ora anche alla fatica che farò nel trasporto solitario di così tanti dischi e vinili. Non dico che la mia schiena non ne risentirà, il mio fisico è tutt’altro che atletico e gli scatoloni sono numerosi e pesanti. Dico solo che so per certo fin da ora che alla fine del lavoro ci sarà spazio solo per la piccola gioia di aver trasportato una parte significativa di me in un nuovo contesto. Con un semplice tocco il nuovo appartamento non sarà e non potrà essere un luogo asettico.
“HOME IS WHERE THE RECORD PLAYER IS”. Ecco la frase captata su Instagram proprio oggi e che mi ha spinto a dedicare un po’ di tempo a scrivere queste righe.

La ormai consueta seduta di (auto)psicoanalisi concessami dal direttore Seimani non sarebbe però completa se non ammettessi che mi sono trovato costretto a ripensare a quel colloquio di lavoro di quasi 13 anni fa, descritto all’inizio di questo racconto. Ho visto infatti finire negli scatoloni questi dischi ancora perfettamente incellophanati:
1) Colin Blunstone - One Year;
2) Ryan Adams - 29;
3) Bjork - Vespertine;
4) Hard Fi - Stars of CCTV;
5) John Spencer Blues Explosion - Extra Width;
6) Deerhunter - Monomania;
7) Explosion in the Sky - Take Care, Take Care, Take Care;
8) Brian Eno + David Byrne - My life in the Bush of Ghost (si tratta della versione rimasterizzata, la prima edizione assicuro essere tra i dischi ascoltati!);
9) The Flaming Lips & Stardeath and White Dwarfs - The Dark Side of the Moon;
10) VV.AA. - Late Night Tales (by Matt Helders from Artic Monkeys);
11) VV.AA. - Late Night Tales (by Franz Ferdinand).

Sono tutti dischi per i quali mi sono perso “quel piacere facile e immediato di scartare la confezione, di vedere in controluce il CD subito dopo aver fatto quel tipico e leggero sforzo per staccarlo dalla plastica per la prima volta, di sfogliare il libretto e di godersi l’attesa del primo e approfondito ascolto”.
Chiudiamo ogni possibile ulteriore sbrodolamento filosofico volto a spiegare e giustificare il motivo per cui mi sono trovato ripetutamente a commettere un errore che tredici anni fa consideravo assolutamente inconcepibile ricorrendo a un sempreverde e apodittico “mai dire mai”.


La domanda ora è una sola: quale di questi CD deciderò di ascoltare per primo nella casa nuova? Potrebbe essere l’inizio di una nuova storia da raccontare.

4 commenti:

  1. Piccolo manifesto? Ammè me pare un trattato dastrofissica

    RispondiElimina
  2. Il solito Maestro lucido ci viene incontro: il senso del possesso è un atteggiamento naturale che risale alla notte dei tempi. E' un comportamento primordiale e innato nella mentalità umana.
    Il discorso sul supporto fisico musicale potremmpo traslarlo in mille altri discorsi: l'auto (perchè possederla e non affittarla?), la casa, l'abbigliamento (che senso ha avere nell'armadio 10 maglioni o 15 paia di scarpe?) e così via.....
    Siam fatti così, nulla di male.
    Il mio senso del possesso oramai si è ridotto a un ipod che contiene 80giga di roba che mi porto in giro ovunque con grande godimento e piacere.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L'auto perchè possederla e non affittarla? Fatti la domanda datti la risposta e mandati affanculo!

      Elimina
  3. Il disco in due copie identiche è davvero un estremismo.

    RispondiElimina