On the long road (18 Years No Code)

di The Wildcatter

Piccole note di una persona che non sa fare un accordo con la chitarra, è imbarazzante quando cerca di tenere il tempo battendo le mani, è stonato come pochi e ha la pretesa di spiegarvi l’importanza e la bellezza di essere appassionati di musica in generale e di un gruppo in particolare. Anche a costo di apparire retorico.  

ON THE LONG ROAD 

In macchina, poco più che diciottenne, sto ritornando a casa dopo aver trascorso una settimana al mare con i miei genitori e mia sorella. Quella che si rivelerà essere la mia ultima vacanza con la famiglia al completo è passata assai a rilento tra cruciverba della Settimana Enigmistica e quiz di logica e matematica tratti da un libro "Alpha test", attività a cui mi sono dedicato in previsione dell’esame di ammissione ad un ateneo milanese. 
Ho in mano un oggetto che mi rende insopportabilmente lungo ogni minuto del viaggio. 
Prima di partire sono infatti andato in un negozio di dischi dell’isola d’Elba ed ho comprato la “mia” copia di un CD che già dalla confezione appare unico, pregiato e interessante. Niente plastica, l’involucro è un ricercato digipack in cartone. Nella fessura dove ci si potrebbe aspettare di trovare il libretto dei testi c’è una custodia di cartone che contiene sei o sette repliche di Polaroid: con un’attenta ricerca si possono ritrovare queste stesse fotografie anche da qualche parte sulla copertina, sul retro di ciascuna si può leggere il testo di una canzone. Il disco è uscito proprio oggi, fine agosto 1996.


Mi trovo quindi in macchina con un’assoluta urgenza di scoprire e ascoltare le canzoni del disco che ho in mano. Molte delle precedenti canzoni della rock band americana che lo ha dato alle stampe sono in assoluto tra le mie preferite. “Daughter”, “Rearviewmirror”, “Alive”, “Black”, “Corduroy”, “Betterman”, “Nothingman”, “Immortality”, “Garden”, “Elderly woman behind a counter in a small town”, “Not for you”, “Jeremy”… Dagli articoli avidamente letti in spiaggia ho ben formato nella mia mente questo pre-giudizio: album molto bello ma spiazzante. Non aspetto altro che una conferma, cosa che potrò ottenere solo dopo ripetuti ascolti del disco, dall’inizio alla fine. Peccato che al momento non mi sia possibile ascoltarne neppure una nota: l’Alfa del papà prevede un’autoradio con il mangianastri e io sono dotato del mio inseparabile walkman Sony, anch’esso rigorosamente costruito per la riproduzione di musicassette (*) . Non posso quindi far altro che aspettare fino all’arrivo a casa, dove il CD finirà per direttissima nello stereo ed io potrò così finalmente soddisfare la mia curiosità. The waiting drove me mad, direbbe qualcuno. Al momento posso quindi unicamente concentrarmi sull’oggetto che ho in mano. Neppure le curve della Cisa mi distolgono da un’analisi accurata: ancor prima di ascoltare le canzoni ho letto più volte i testi che ho trovato sul retro delle Polaroid, ho analizzato una per una le foto della copertina, rimbalzando orgogliosamente i pensieri sulla mia vita che di lì a poco era destinata a cambiare radicalmente. Come suona davvero questo disco? Quali canzoni mi conquisteranno come quelle citate sopra? E se fosse una delusione? Queste sono le domande che mi risuonano in testa, scacciando per il momento i dubbi sulle mie effettive possibilità di superare il test di ingresso di quell’università milanese, sulle conseguenze della mia decisione di fare in ogni caso l’università lontano da Brescia, sul fatto di diventare adulto in una città al momento del tutto sconosciuta.
È come se esistesse solo una sensazione, quella generata dall’attesa in cui mi sono costretto, una sensazione alimentata dal tempo che mi separa dall’ascolto di quel disco e dalle alte aspettative che sembrano crescere ad ogni kilometro percorso. Per fortuna la parola “tutor” non evoca alcun automatismo con la parola “multa” e, come da abitudine, la velocità media tenuta dal babbo è molto elevata. Casa, sto arrivando! 

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ON THE LONG ROAD (AGAIN) 

Ho poco più di 36 anni, sono in macchina, in autostrada, da solo. Ho appena lasciato all’aeroporto di Venezia una persona. Sono stanco. Mentre mi districo nel traffico del lunedì mattina medito sul fatto che qualche anno fa avrei sostenuto meglio il tour de force imposto da due concerti a oltre 400km di distanza l’uno dall’altro nell’arco di un fine settimana. Ho collegato all’hi-fi della macchina il mio IPOD. Faccio sempre fatica a credere che quest’aggeggio contenga davvero oltre 7.000 canzoni, la stragrande maggioranza delle quali prese dalla mia collezione di CD. CD che mi ostino a comprare, a volte in modo compulsivo, pur consapevole di essermi creato un ambito in cui sono fuori dai tempi in cui vivo. 

Venerdì scorso sono stato per un concerto a Milano, Stadio San Siro, insieme a mia sorella e a una mia cara amica. Insieme a loro nel 2000 e nel 2006 ho passato due splendide serate ad ascoltare la musica di cinque ragazzi di Seattle che suonavano dal vivo all’Arena di Verona. In entrambe le occasioni la band aveva letteralmente conquistato il pubblico, consolidando la sua eccellente fama. Una volta anche la pioggia era stata protagonista, ma ancora oggi ricordo con un improbabile senso di piacevolezza quel forte temporale estivo che colpì migliaia di persone prima dell’inizio del concerto e durante le prime canzoni dell’esibizione. I ragazzi di Seattle sono gli stessi che hanno suonato venerdì. 

Ieri invece ero a Trieste, Stadio Nereo Rocco, sempre per un concerto, insieme alla persona appena lasciata all’aeroporto, uno dei miei migliori amici. Era la seconda e ultima data italiana del tour europeo dei soliti ragazzi di Seattle. Il mio amico ora vive a Parigi ed è riuscito a fare un blitz in Italia proprio per il concerto. Era mio compagno di scuola al liceo. Ricordo ancora che all’epoca ammiravo molto il fatto che lui, per distacco il migliore della classe, fosse riuscito a inserire in un tema una citazione tratta dalla canzone “Immortality” e più precisamente “some die just to live”. Dopo la maturità andammo entrambi a fare l’università a Milano e andammo insieme al concerto al Fila Forum di Assago a supporto del famoso disco “delle polaroid”, intitolato “No Code”. Sì proprio quel disco di cui mi ricordo ancora perfettamente il primo ascolto, dopo un viaggio in macchina insieme alla mia famiglia, di ritorno dalle vacanze all’isola d’Elba. Quel disco che ascoltai infinite volte e che mi conquistò esattamente come, in fondo, volevo che mi conquistasse. 

Da solo, lungo l’autostrada, cerco di contrastare la stanchezza e mi ritrovo così a pensare ai quasi 18 anni che separano questo viaggio, con oltre 7.000 canzoni su un IPOD, probabilmente oltre 400 ore di musica che non riuscirò mai ad ascoltare interamente, da quel viaggio in macchina con in mano il CD di “No Code”, 40 minuti di canzoni che non potevo ascoltare. 

Penso a come sono trascorsi, a quante cose sono cambiate e a quante cose sono irrimediabilmente destinate a non cambiare. Mi concentro su come sono cresciuto, su quali aspetti del mio carattere non sono assolutamente cambiato, sulle mie sicurezze e sulle mie insicurezze e su come la musica mi abbia accompagnato in questi anni. Comincio a ricordare alcuni concerti e a riflettere su come ero e chi ero in quei momenti. Ripenso in particolare ai concerti dei Pearl Jam (si era capito che parlavo di loro, vero?). Gli ultimi due, ancora freschi nella memoria, sono stati superiori alle aspettative e sorrido al solo pensare che durante le esibizioni mi sono detto più volte che ero contento di essere invecchiato con loro. Penso alle altre “doppiette”: nel 2000 Verona e Milano; nel 2009 Berlino e Londra. Penso alla follia di andare da solo al Lollapalooza a Chicago nel 2007 solo per contrastare la delusione dell’annullamento del concerto a Venezia di quell’anno. Penso al privilegio di aver visto il concerto solista di Eddie Vedder a Londra nel 2012. Penso alle persone con cui ho condiviso questi concerti e agli aneddoti che condiscono queste esperienze. Penso alla sincera felicità esteriore vista in tutte quelle occasioni negli occhi e negli abbracci di perfetti sconosciuti. Penso al mio stato d’animo in quei momenti e rifletto su come partecipare a quegli eventi abbia influenzato il mio stato d’animo e il mio modo di essere. Mi trovo a riflettere sul grado di consapevolezza e forse di maturità che ho raggiunto in questi anni. 
I miei pensieri, partiti semplicemente cercando di imprimere nella memoria i momenti degli ultimi due ravvicinati concerti, mi hanno portato quindi a fare un piccolo bilancio della mia vita. Tengo ovviamente solo per me l’esito più personale delle mie riflessioni, ma mi piace l’idea di condividere il fatto che, in modo del tutto naturale, mi è parso chiaro e potente il valore che ho dato e do alla musica e a tutto quello che le viene intorno. Un valore che si esprime sia in termini di bellezza percepita sia in termini di importanza data. 
Penso così alla fortuna di aver ascoltato molti anzi moltissimi dischi e di aver visto e vissuto tanti altri concerti, oltre a quelli dei Pearl Jam. Con riguardo a questi ultimi, riaffiorano i ricordi di alcuni concerti in particolare, alcuni recenti, altri risalenti ormai a molti anni fa. Ho chiaro anche il motivo per cui in questo momento ripenso proprio a questi concerti e non ad altri. Per ciascuno di essi ho ricordi particolarmente vividi e piacevoli, ben incisi nel mio animo, grazie a quella che era l’oggettiva proposta musicale dei gruppi che ascoltavo e grazie alla considerazione e alla consapevolezza di quello che io ero autenticamente in ciascuna di quelle circostanze. 
E forse ora anche voi comprendete come io sia davvero appassionato, non solo dei Pearl Jam, ma della musica in generale e dei concerti in particolare. 
La musica a volte asseconda il mio stato d’animo, a volte lo influenza, a volte lo contrasta, a volte lo amplifica, a volte non lo scalfisce nemmeno, ma è un elemento che è sempre presente e che mi ha fedelmente accompagnato lungo tutti questi anni. Posso quindi dire che la musica è stata, nella mia vita, una sorta di investimento emotivo ampiamente ripagato. Un prezioso strumento per affinare quell’esercizio fondamentale per vivere se non felici, sereni: quello di conoscere davvero se stessi. Casa, arrivo! E sono proprio io. 

POST SCRIPTUM: non ho mai comprato altre copie di No Code per la collezione delle Polaroid. Ho comprato pochi anni fa il vinile, questo sì. È peraltro uno dei dischi che ho regalato più volentieri. Nelle ultime stampe, in ogni caso, niente Polaroid…

(*Se vi state domandando come mai mi fossi comprato un CD e non una cassetta, vi spiegherò anche questo, dato il tenore molto personale di queste righe. Sappiate che esistevano varie edizioni del CD, cinque o sei se non sbaglio: ognuna conteneva un “set” diverso di Polaroid. Solo acquistandole tutte si potevano avere i testi di tutte le canzoni e tutte le polaroid stampate. Nessuna questione dunque che il formato prescelto per l’acquisto fosse proprio il CD. Se avessi voluto investire altre 20.000 lire per questo disco mai e poi mai l’avrei fatto per la combinazione “musicassetta + CD” , che pure mi avrebbe garantito un ascolto immediato, ma per l’opzione “due CD”, nella speranza di trovare nel secondo CD polaroid diverse da quelle trovate nel primo. Rifletto ora sul fatto che basta porre a confronto la situazione che ho appena descritto con le modalità con cui ci si approccia alle novità musicali nel 2014 per capire come il 1996 sia decisamente … “tanto tempo fa”!)

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