Faccio vorticare il crepuscolo.
di Stephen Ruer
Take me for what I am: a star newly emerging. Long simmering explodes, inside the self is reeling. In the pocket of the heart, in the rushing of the blood in the muscle of my sex, in the mindful mindless love I accept the new found man
and set the twilight reeling.
[Prendimi per quello che sono: una stella che sta sorgendo di nuovo. Un lungo sobbollire esplode e dentro l'io si avvolge su se stesso. Nella tasca del cuore, nello scorrere del sangue, nei muscoli del sesso, nell'amore assennato e pazzo io accetto l'uomo che ho ritrovato e faccio vorticare il crepuscolo.]
Howl festival, 28 agosto 2005, New York, Lower East Side, Joe's Pub.
Sul palco, un vecchio, grasso, con pochi capelli bianchi rasati a spazzola e un nome da italoamericano che ho subito dimenticato, indossa una camicia hawaiana in questo locale del Lower East Side.
Dice che siamo al festival dell’urlo. Ma noi che abbiamo pagato cinquanta dollari già lo sappiamo. Dice che ognuno deve scrivere il proprio urlo su un cartoncino bianco. E i cartoncini bianchi cominciano a circolare per i tavoli e compaiono sul bancone. Dice che dobbiamo fare sentire la nostra voce al poeta che per primo si è fermato a guardare le menti migliori della sua generazione mentre, distrutte dalla pazzia, si contorcevano per queste strade alla ricerca d’una pera di rabbia.
Il vecchio mi sembra tanto un coglione nostalgico, ma il mio urlo lo scrivo comunque, nel migliore inglese che mi posso permettere: Spero di non avere ancora incontrato le menti migliori della mia generazione.
C'è una vecchia auto scassata che ha la stessa età di chi è al volante. L'auto corre in mezzo una strada sterrata e i corvi spaventati, appena al sicuro, si girano per osservare quella fiat centoventisette amaranto, fiera della nube di polvere che alza alle sue spalle. La data non è importante: è il colpo di fulmine la cosa importante.
Da tre, forse quattro anni, il ragazzo al volante aveva imparato chi era Lou Reed nel modo più ovvio che si potesse immaginare: da qualche parte aveva ascoltato Walk on the wild side, in un film o peggio ancora in una pubblicità di una trasmissione televisiva. Alcuni giorni dopo avere scoperto il titolo e l'autore di quella canzone, non c'era shazam, non c'era internet – o almeno non c'era internet come la conosciamo oggi –, riuscì a mettere le mani su un bootleg finito in un cestone di un supermercato in vendita alla sconcia cifra di quatromilanovecento lire. Era la registrazione di un concerto del settantadue a new york. Energia resa sonorità sporca e perfetta, vita e morte ben miscelate, cocktail adrenalinico puro.
27 ottobre 2013, a seimilacinquecentotrentotto chilometri da New York.
Se n'è andato. Restano decine di ore di musica, filmati, fotografie. I coccodrilli nell'era del social network sono diffusi, capillari, virali. L'elogio è atto dovuto, l'epitaffio si spreca, le frasi fatte vengono via con due soldi. Parte il copia incolla tra le testate dei moribondi quotidiani nazionali dove trovano spazio solo la superficialità, il trito e il ritrito. E resto io senza parole per qualche minuto, da solo e con l'imbarazzo per quel vuoto insensato di quando muore qualcuno per cui tu non eri nulla, ma che era qualcosa per te. O almeno lo erano le sue parole, la sua opera. Ma in fondo le sue parole e la sua opera resteranno e una sua parte ancora le devi comprendere, ancora le devi incontrare.
Bevo un'altra birra mentre aspetto il motivo per cui sono qui. Cerco di seguire le chiacchiere di chi è lì nei paraggi, provo a mimetizzarmi in questo mondo che non è mio. Una cantante ha appena finito la sua performance e sul palco risale il tizio di prima: comincia a leggere quanto sta scritto sui cartoncini. Tra poco Lou Reed leggerà Howl, di Allen Ginsberg. Io cerco di scorgere in ogni capannello che si forma se riesco a vederlo prima del reading. Un tizio mi urta senza accorgersene e un po' di birra mi bagna la mano con cui tengo il bicchiere. Mi giro verso il bancone per recuperare un tovagliolo di carta. È lì, a un passo da me. Indossa un giubbino di pelle attillato con la cerniera tirata su fino al collo e la stessa faccia che sta sulle copertine dei dischi che ho a casa. Sta chiacchierando con una coppia. Intorno a lui non c'è la pressione che ci si aspetterebbe, ma in tanti lo studiano con sguardi discreti. Lo vengono a chiamare: è quasi ora di iniziare la lettura, gli indicano qualcuno dietro il palcoscenico. Mi sta passando davanti e allungo la mia mano verso di lui. Gli tocco la spalla, lui si ferma e mi guarda. Grazie, dico, grazie per tutto, fa un mezzo sorriso, se ne va tranquillo.
Un giorno vuoto, maggio 1996, da qualche parte della bassa bresciana.
Ci sono un ragazzino cresciuto nella morbida Brescia, apparentemente al riparo da ogni ferocia e un ragazzino sopravvissuto alle asperità della New York del secondo dopoguerra, sottoposto a elettroshock per guarire la bisessualità manifestata e che all'età dell'altro già aveva scritto Heroin. Ci sono in mezzo trentaquattro anni, l'Atlantico e una lingua diversa. C'è in mezzo anche la differenza tra l'essersi svegliati presto e coraggiosi e l'essersi svegliati tardi e pigri. Cosa possono dirsi questi due ragazzi? Uno ha già vissuto cento vite l'altro ancora non strappa il cellophane dalla sua prima. Be' il ragazzino americano può raccontare il male di vivere con la forza che pochi altri hanno avuto a quello che la sua America ha solo iniziato a sognarla.
27 ottobre 2013, a seimilacinquecentotrentotto chilometri da New York.
Adoro gli slanci patetici, anche se in genere cerco di nasconderli nell'intimità. Prendo i miei vinili di Lou Reed e dei Velvet Underground e li comincio a riascoltare uno per uno. Le parole, la poesia di Reed, arrivano più tardi: la prima cosa che ti grattuggia l'anima è la sua voce, il timbro particolare, ostentatamente inespressivo, distaccato, poi c'è la sua tecnica chitarristica, lontana dai virtuosismi ma in nessuna occasione scontata e anonima. Infine arrivano le parole, le storie, le immagini. La realtà è lì: ready-made e Lou Reed racconta l'ineffabile oscenità della vita. In questo senso è pop: il suo racconto è onesto, asciutto, sembra non selezionare, non fare montaggio. Sembra che personaggi, fatti, gesti cadano nella ragnatela dei suoi testi e restino lì appesi a mostrare l'ossimoro dell'esistente. Le sue canzoni più dolci hanno sempre una nota melanconica e le canzoni più tragiche offrono sempre lato luminoso, a volte autoironico: un verso, un arrangiamento, l'uso inaspettato di uno strumento.
Ora la sua ricerca è finita, la sua opera è compiuta. Metto su Transformer e lo riascolto un'altra volta.
Goodnight ladies
ladies goodnight
It's time to say
goodbye,
let me tell you, now...
Un grande acquisto e una grande perdita
RispondiEliminaE' una vergogna che nella società moderna gente come Stephen Ruer si ritrovi a scrivere per gentaglia come Seimani.
RispondiEliminaUn tristissimo dio del mese.
RispondiEliminaVorrei piangere ma fortunatamente non mi ricordo più come si lacrima copiosamente.