Bruce Springsteen - Born In The U.S.A. (30 Years Anniversary)

di Johnny Clash

Parlare oggi di Born In The U.S.A. significa occuparsi di uno dei capolavori più controversi della storia del rock. Osannato da critica e pubblico nell’anno della sua pubblicazione (si era nel 1984) attualmente quest’album trova nutrite schiere di denigratori, che spesso ne mettono in evidenza il carattere troppo commerciale, il sound eccessivamente pomposo e pacchiano, caratterizzato com’è dagli onnipresenti sintetizzatori di Roy Bittan e dal beat troppo anni 80 della batteria di Max Weinberg, ed infine il piglio smisuratamente patriottico, troppo esposto a fraintendimenti e strumentalizzazioni.

Sia chiaro: molte di queste critiche sottolineano senz’altro alcuni punti dolenti realmente presenti nell’opera, se è vero com’è vero che anche lo stesso Springsteen, una volta riemerso dalla springsteenmania planetaria che seguì l’uscita dell’album, si ritrovò a scontarne pesantemente le conseguenze, nonchè a doverci continuamente fare i conti per anni ed anni a venire (emblematiche, in tal senso, la sua decisione di pubblicare solo tre anni più tardi l’intimista Tunnel of Love e la seguente "pausa di riflessione", con annesso scioglimento provvisorio della E Street Band, alla fine del tour di quello stesso disco).

Eppure bocciare tout court un album come Born In The U.S.A. significherebbe mostrare cecità di fronte ad un disco che può essere considerato a buon titolo un vero e proprio capolavoro del rock anni 80 nonchè, in generale, del rocknroll in senso lato.


Sì, rocknroll, ove l'uso del termine non è da intendersi una mera casualità. Perchè quando Jon Landau, ancora nel 1973, concluse il suo celebre articolo per la rivista The Real Paper con il celebre: “Ho visto il futuro del ROCK'N'ROLL ed il suo nome è Bruce Springsteen” senz’altro vide lontano. Questo infatti rappresentano ancora oggi più di ogni altra cosa Bruce Springsteen e la sua E Street Band e questo dimostrano di sapere mettere in scena ogni volta che mettono un piede sul palco: una perfetta macchina da rocknroll! Nel loro piglio ci troverete ben poco della musica di Woodstock, della scena underground newyorkese, della new wave, del punk. Forse nulla. Ma ci troverete invece parecchio di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Roy Orbison, Buddy Holly, Johnny Cash, dei primi singoli dei gruppi della British Invasion…i loro riferimenti si trovano infatti più indietro, laggiù alle radici della musica stelle e strisce e non…

Born In The U.S.A., il rocknroll e gli anni 80 dunque. La riscoperta di un certo spirito anni 50 fu tipica di quel periodo, ma a mio modo di vedere solo due grandi album usciti in quel decennio riuscirono realmente ad incarnare, anche se in maniera del tutto diversa, il suo pur breve risorgimento: il primo è il gigantesco London Calling dei Clash, l’altro è senza dubbio Born In The U.S.A. di Bruce Springsteen & The E Street Band.

L’album si apre con la celeberrima title track…chiudete gli occhi, serratevi i timpani, fate ciò che volete, ma cercate di dimenticarvi quei maledetti tastieroni.
Ci sono i Crickets lì dentro “I fought the law and law won!” cantavano quei ragazzi nel 1959, ed ora è il protagonista di Born in the U.S.A. a parlarci di un guaio in cui si è cacciato nel suo piccolo paese (“Got in a little hometown jam”) a fronte del quale si ritrova più tardi a vagare senza meta e senza una direzione ("nowhere to run, ain’t nowhere to go!”) dopo che quella stessa legge lo ha mandato a uccidere sconosciuti in una terra straniera.
Il disco vira poi repentinamente ed inaspettatamente verso il pop. Al primo pezzo segue infatti Cover me, incursione di Springsteen nella musica leggera anni 80 (fu scritto per Donna Summer e solo in seconda battuta il Boss decise di tenerlo per se) ed è un brano si fa ricordare soprattutto per la nervosa chitarra elettrica in perfetto stile Darkeness on the edge of town che sostiene la composizione fino alla sua dissolvenza...

Ma è ancora sulla terre selvagge del rocknroll che si torna per tutte le tappe successive. Se lo ascoltate con attenzione scoprirete che Born In The U.S.A. è soprattutto un album ricolmo di fantasmi: nella parabola biblica che si consuma nella Darlington County c’è tutto il tormentato misticismo di Jerry Lee Lewis, in Working on the highway, Downbound Train e I’m on fire Elvis e Johnny Cash sembrano farsi un viaggio assieme su una vecchia Cadillac lungo qualche strada dimenticata delle badlands americane, mentre No Surrender, Bobby Jean, I’m going down e Glory Days vedono The King andarsene a spasso con Buddy Holly e Roy Orbison.

E’ un viaggio irrimediabilmente in bianco e nero quello di Born In The U.S.A. che dunque paradossalmente riesce ad essere un album iper-commerciale proprio nel momento in cui prende a modello i riferimenti più tradizionali della musica americana, all'epoca completamente in contrasto con la concomitante infatuazione per disco-music ed elettronica. 

E’ però riatterrando proprio nella contemporaneità che il disco giunge, dopo circa 45 minuti, alla sua conclusione: Dancing in the dark, canzone scritta da Springsteen in un momento di sconforto dopo un duro scontro con Jon Landau (nel frattempo diventato suo manager già da 10 anni), insinua nella disco-pop tipica del periodo ombre di nebraskiana memoria ("This gun's for hire even if we're just dancing in the dark"), mentre My Hometown è la ballata manifesto del Bruce Springsteen impegnato degli anni 80 ("Son, take a good look around...this is your hometown").

Appesantito com’è da quegli irrinunciabili orpelli tipici di certo sound anni 80, che hanno rischiato di rovinare (ed hanno rovinato) numerosissime composizioni rock dell’epoca, Born In The U.S.A. può rivelarsi dunque album difficile da masticare, ma è però un disco che ad un ascolto più attento palesa uno spirito libero e selvaggio che in poche altre opere del periodo si mostra con tanta incontestabile sincerità. Una sincerità che viene dall'ascolto di gracchianti vinili che girando su vecchi giradischi a volte possono cambiare finamai un'esistenza. “Abbiamo imparato di più da un disco di tre minuti di quanto abbiamo mai imparato a scuola” è la provocazione lanciata dal protagonista di No Surrender. Ecco, Born In The U.S.A. suona come un album cantato e registrato da gente che in certe cose ci crede davvero. E, insomma, suona oggi come uno di quei vecchi vinili di cui sopra si diceva. Come l'avevano chiamata quella roba? Ah, rocknroll!

Tracklist:


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